Caccia Grossa
«Non sono sicuro sia una buona idea, Teodorico.» La voce di Orlando suonò calma e decisa, quasi che in quel clima inospitale si trovasse perfettamente a proprio agio.
«Addentrarsi nella foresta al calar della notte può essere molto pericoloso.»
Il bruto poco lontano dall’albero cui era comodamente appoggiato non sembrava prestargli molta attenzione, lo sguardo puntato verso il folto della selva.
«Ti comporti da vigliacco, umano? I brumani sono i migliori guerrieri di tutto il Reame, non so perché il Principe si tenga gente come te.» L’enorme guerriero inclinò leggermente il capo, guardando in tralice l’umano dietro di lui, i larghi occhi simili a nere cavità sul volto già scuro del bruto lo squadravano da capo a piedi. Era piuttosto alto Orlando, grosso e muscoloso di stazza, che però impallidiva confrontata all’imponente figura che lo precedeva. Il massiccio torace di Teodorico era stretto un in giaco di cuoio scuro, e la pesante pelliccia di un gigantesco lupo nero adagiata sulle spalle completava l’immagine di un individuo dall’evidente quanto micidiale attitudine alla battaglia.
«Le bestie che abitano il fitto della foresta fanno collezione di teste vuote come la tua» Orlando accompagnò il motteggio con un ghigno divertito, mentre il condensarsi del respiro nell’aria fredda sembrava invadere lo stretto sentiero.
«Però hai ragione, dovremmo proseguire la ronda.»
Con un scatto improvviso l’umano prese agilmente ad avanzare verso il fitto del bosco, lo sguardo fisso verso il buio profondo. La foresta era un confuso aggrovigliarsi di tronchi neri e spessi arbusti, suggestivo desiderio di una volontà ormai persa nel tempo; il freddo era pungente, costante nell’insinuarsi in ogni singolo spiraglio delle vesti e delle armature, il freddo gelido, come sempre era, di un pallido autunno brumano. Intanto calava la nebbia.
La nebbia di Castelbruma, oltre a dare il nome al Principato, era leggendaria in tutto il Reame. Densa, bassa, presente la maggior parte dell’anno e così penetrante da insinuarsi gelida anche sotto le cappe più spesse.
«Avremo maggiori possibilità dividendoci, » la voce del bruto era bassa e profonda nella notte « sempre a distanza di voce e…» l’espressione dell’umano al suo fianco non era priva di ironia nell’interromperlo «dove la nebbia è meno fitta.»
«Nella bruma.» Il saluto rituale dei cacciatori riusciva sempre a farli sentire meglio, nonostante entrambi sapessero che ogni volta poteva fatalmente essere l’ultima.
Mentre il compagno di caccia procedeva in direzione ovest, Teodorico il silente marciava nella direzione opposta, il leggero frusciare della pelle di lupo che si confondeva a quello dei rami sopra la sua testa. Il bruto si sentiva inquieto, come se quell’antica foresta che ormai conosceva come il palmo della propria mano lo stesse osservando, e gli Spiriti del Vecchio Culto sapevano quando odiasse sentirsi al centro dell’attenzione.
Mentre gli alberi gli sfilavano attorno allontanò quei cupi pensieri. Aveva bisogno di concentrazione per avere la meglio su bestie che potevano essere molto pericolose, come gli enormi cinghiali tanto amati a castello. Con un po’ di fortuna quella sera si sarebbe parlato di lui a tavola.
A dispetto delle dimensioni imponenti scivolava senza rumore avanzando attraverso il fitto sottobosco, attento ad ogni minimo movimento, ad ogni più piccola traccia di una possibile preda. Bastò solo qualche minuto di attesa a cogliere un fruscio sospetto provenire da una massa di cespugli all’altro capo della piccola radura che ora stava fiancheggiando.
Tendendo ogni singolo muscolo, la lancia salda nella mano destra, Teodorico il Silente era pronto alla caccia.
Quasi non li sentì arrivare. Quel quasi gli salvò la vita. Passi pesanti si avvicinavano di corsa alle sue spalle, colto alla sprovvista Teodorico fece appena in tempo a girarsi e scansare un micidiale colpo diretto alla testa. La grossolana ascia bipenne tagliò l’aria mentre il bruto si rannicchiava per evitarla e il raggelante muggito dell’uomo bestia di fronte a lui ruppe come un corno da guerra il silenzio intorno. La fortuna era stata clemente, ma non gli concesse di evitare il calcio che lo mandò a schiantarsi contro il fusto di un albero ad almeno sei piedi di distanza.
I tonfi concitati sul terreno gli dissero che il cinghiale aveva lasciato il suo nascondiglio e fuggiva rapido verso il folto, «Codardo» imprecò Teodorico. Stordito e con un paio di costole incrinate a giudicare dal dolore lancinante che provava al torace, il bruto si rimise in piedi all’istante chiedendosi come aveva potuto farsi sorprendere a quel modo.
«Castelbruma!» Il grido di battaglia gli uscì dalla bocca corredato da un fiotto di sangue, ma riuscì comunque a suonargli incoraggiante. Incurante del dolore si gettò come una furia contro l’ombra dell’aggressore, il lungo coltello da caccia apparve quasi d’incanto nella mano che menava fendenti verso le parti vitali del mostro. Questi, colto alla sprovvista dall’improvviso vigore della sua preda, non fece nemmeno in tempo ad alzare la propria arma che già profonde ferite sgorgavano fiotti di sangue scuro dalla gola, dal torace, dall’inguine.
Il tipico coltello adunco dei cacciatori era famoso quasi quanto la nebbia di Castelbruma, quasi quanto il valore dei suoi guerrieri, e Teodorico non faceva eccezione. Con un ultimo lancinante spasmo di vita, la bestia colpì il bruto al ventre con un violento rovescio della mano stretta a pugno, mandandolo nuovamente in ginocchio e lasciandolo senza fiato. Aggrappandosi alle ultime forze e all’ascia bipenne che stolido ancora stringeva, l’uomobestia cadde muso a terra con un tonfo sordo, il sangue che si allargava in dense pozze sotto il massiccio corpo senza vita.
Teodorico aveva vinto. Il bruto si concesse il sollievo per lo scampato pericolo giusto in tempo per accorgersi che, invece, il pericolo era proprio sopra di lui. Una seconda sagoma lo sovrastava respirando pesantemente nella notte.
L’enorme clava gli sembrò piccola nelle mani dell’uomobestia, ma gli occhi ferali nascosti dal buio promettevano che quell’arma gli sarebbe stata letale. Con un ultimo sforzo, stringendo i denti per il dolore, il cacciatore alzò la testa per affrontare almeno lo sguardo del proprio avversario, attendendo la fine. Sarebbe morto da guerriero, e allora si sarebbe potuto dire che non aveva avuto paura, allora si sarebbe potuto dire che non era fuggito.
Fu allora che un sibilo ruppe il silenzio, poi un grido strozzato, un tonfo, forse la clava. Un tonfo più forte gli fece eco, un corpo. E infine il buio.
Al risveglio trovò Orlando piegato su di lui, stava impiastrandogli il torace con una nerastra erba viscosa dall’odore intenso, non avrebbe saputo dire quanto era stato svenuto. Rimettendosi seduto scorse alla debole luce filtrata dalle chiome degli alberi l’uomobestia che aveva ucciso, accanto c’era l’altro che invece stava per ucciderlo, due quadrelli di balestra sporgevano dalla gola e dall’occhio sinistro della belva.
Il viso dell’umano era completamente in ombra, ma il bruto avrebbe potuto giurare che quell’odioso sorrisetto beffardo gli si era nuovamente stampato in faccia, e che ci sarebbe rimasto troppo a lungo per i suoi gusti.
Stava cercando di rialzarsi da terra quando la voce del compagno riempì la radura «Te l’avevo detto che le bestie della foresta fanno collezione di teste vuote come la tua.» Nascondendo la balestra nuovamente carica Orlando si preparava a ripartire. Con un mezzo sorriso deformato dal dolore Teodorico si avviò zoppicando verso le carcasse dei suoi aggressori.
«Dammi una mano», fece rivolto all’uomo, «sembra che abbiamo trovato la cena.»
Quella sera si sarebbe parlato di lui a tavola.
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autore anonimo